Così dicendo Orazio si alza dal tavolo e conclude.
— Fatti pure un giro nel mio giardino. Non è grande, ma mi dà tutto quello di cui ho bisogno. Ammira la mia vigna, i miei alberi da frutta e l’orto, che posseggo grazie alla magnanimità del mio amico Mecenate.
Mentre mi aggiro nella vigna penso alle sue parole. Parlare io di Taranto ad Orazio? E cosa mai potrei dire? Di cosa dovrei parlare? Del fatto che vi è rimasto ben poco degli splendidi edifici di un tempo? Dovrei parlare della campagna circostante, che è cambiata notevolmente? Dell’Ilva, della Cementir, dell’Agip e del traffico che contribuisce ad inquinare l’aria che respiriamo? Del Galeso ridotto a discarica? Perché dovrei turbare la sua serenità d’animo riferendo ciò di un luogo che egli ricorda come un paradiso, un luogo lontano dal tumulto della vita e che per questo motivo gli dà nostalgia? Ecco infatti come Orazio descrive i luoghi di Taranto in una sua ode, della Taranto del suo tempo:
“O Settimio, che saresti pronto a venire con me sino a Càdice, sino ai Cantabri che si ribellano al nostro dominio, sino alle Sirti desertiche, dove sempre rumoreggia il mare africano, io vorrei che Tivoli, fondata da un colono d’Argo, fosse finalmente il riposo della mia vecchiaia, il porto del mio errare per terra e per mare, fra le armi…”.
Voi direte: ma allora Orazio inneggiava a Tivoli, altro che Taranto! No, invece. Tivoli era soltanto più vicina. Sentite come continua:
“Se gli dei avversi mi terranno da qui lontano, andrò verso le correnti del Galeso gradite alle morbide greggi, andrò verso la pianura di Taranto su cui un tempo regnò lo spartano Fàlanto. Quell’angolo di terra fra tutti mi sorride: là è il miele più dolce, laggiù le bacche dell’ulivo sono più lievi che altrove. Laggiù il cielo concede lunghe primavere e miti inverni, e i colli cari a Bacco per nulla invidiano i vigneti di Falerno. Quei luoghi arroccati sui monti chiamano me e te: là, con le tue lacrime pietose, bagnerai la tiepida cenere del tuo amico poeta”.
 
 
 
 
 
Capperi! Voi credete che se descrivessi la Taranto di oggi, Orazio confermerebbe queste sue parole, al punto di voler addirittura andare a morire in “quell’angolo di terra che fra tutti gli sorride”, come asserisce? Certo, gli alberi d’ulivo ci sono ancora (sempre meno), così pure la vigna, per fortuna… ma il resto? E mi chiedo: come mai Orazio, e non solo lui, parla del Galeso in maniera così appassionata? Un fiume che non può certo reggere il confronto con il Tevere e che ha deluso più di qualche visitatore, chiunque vi sia stato, attratto dalla descrizione pervenutaci dai poeti latini. Forse che un tempo la sua sorgente fosse più a monte e che pertanto il fiume stesso scendesse nel Mar piccolo più imponente? O, forse, la campagna tutt’intorno era così splendente e rigogliosa da far ritenere ininfluenti le modeste dimensioni del fiume? Mah! Certo il Galeso non era vittima dell’inquinamento odierno.
Quindi questo pomeriggio non parleremo di Taranto, ma vorrei comunque sentir parlare Orazio. Parlare di poesia più che di storia. Della sua poesia dalla quale traspare l’amore per la natura, per la vita che pur trascorre, e che invita a godere di tutta la felicità che ci è benevolmente concessa, foss’anche di una sola ora. E per un pagano, secondo il quale al di là della vita terrena non c’è vita migliore, ciò è il massimo a cui egli possa aspirare. Non resta, quindi, che afferrare di giorno in giorno tutto ciò che la vita, avara, ci dà di buono, senza affaticarsi per accaparrare quello di cui non si ha bisogno. Sentite questa:
“Vedi come il monte Soratte si erge tutto bianco per la spessa neve, come i rami ricurvi della foresta non ne reggono più il peso, e i fiumi si sono fermati sotto il ghiaccio tagliente. Amico mio, getta molti ceppi sul focolare, scaccia il freddo, e ancor più generosamente versa da un’anfora il vino invecchiato…”. Beh, cosa si può volere di più in una giornata simile? Un bel fuoco acceso e del vino per scaldare le ossa. Orazio continua:
“… Rimetti ogni cosa alla volontà degli dei: essi comandano ai venti di placarsi, e il mare si quieta, e i cipressi e i vecchi frassini si immobilizzano. Non cercare di sapere che cosa sarà domani; considera un dono qualsiasi giorno ti concede il destino. Ma, amico mio, non trascurare la bellezza dell’amore e delle danze, finché sei giovane, fino a quando la lenta vecchiaia sarà lontana dai tuoi anni fiorenti…”.
Sì, perché non dobbiamo pensare che Orazio sia un eremita dedito soltanto alla contemplazione dei paesaggi agresti e che abbia sempre cercato la solitudine. Che diamine, è stato giovane anch’egli, ed ha cantato anche l’amore, sia pure non come violenta passione. Egli scrisse:
“Mettimi in una desolata pianura dove nemmeno un albero si muove alla brezza dell’estate, in una regione del mondo oppressa dalle nebbie e da un cielo maligno. Mettimi vicinissimo sotto il cocchio del Sole, in una terra inabitabile… “.
Secondo voi cosa farebbe Orazio in questo caso?
“… lì canterò l’amore per Làlage che dolcemente ride, dolcemente parla…”.
Beh, signori miei, esistono anche le donne, così come la bella Clori che, secondo Orazio, è “candida come la limpida luna che splende sul mare notturno”.
Sapete… non si vive di sola Ilva, anzi!
(Continua)
 
 
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